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saggio d’una versione | 221 |
tene sul lido; tiranni che compilano editti, pei quali s’ingiunga a’ figliuoli di mozzare il capo a’ parenti, responsi in tempo di pestilenza di tre o più vergini da sagrificare; giri lusinghevoli di parole; detti e fatti, ogni cosa, come a dire, insaporato di sesamo e di papavero.
A chi s’alleva di tal maniera tanto è possibile addottrinarsi, quanto gettar buon odore chi bazzica per cucine. Foste voi primi, portatelo in pace, a mandarne a male l’eloquenza; da che gonfiando con voti e inetti vocaboli non so che bolle, toglieste al corpo dell’orazione il nerbo e la vita.
Non ancora esercitavansi i giovani nelle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono parole appropriate al discorso. Non ancora il pedante zoticone aveva alloppiati gl’ingegni, quando Pindaro e i nove Lirici non s’arrischiarono di cantare omerici versi. E per non citare soli poeti, certo nè Platone nè Demostene sonosi dati, ch’io sappia, a siffatto genere d’esercizj. La nobile, e, a così dire, pudica orazione, non è imbellettata nè tronfia ma per naturale avvenenza grandeggia.
Testè questa ventosa e importabile garrulità tragitossi dall’Asia in Atene, e spirò nel petto de’ giovani meglio disposti quasi un influsso pestilenziale; onde che l’eloquenza perduta la buona direzione, rimase e si tacque.
Da indi chi gareggiò con Tucidide, chi con Iperide? Nè pure un verso spiccò per sano colore; ma tutti nudriti d’uno stesso latte, impediti furono di giugnere a canuta attempatezza. Fu il somigliante della pittura, da che bastò l’animo agli Egiziani di ridurre sì grande arte a compendio.
Così a un dipresso declamava già tempo; ed ecco Agamennone accostarcisi, e sguardato di chi s’ascoltassero tanto attentamente i chiacchieramenti, gli seppe male ch’io declamassi più a lungo ne’ portici di quello