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170 | capitolo ventesimonono |
de’ beni ingrassassi, e credessi aver pure la fortuna cessato di guatarmi biecamente, tuttavia spesse volte riflettea meco stesso non tanto allo stato mio attuale, quanto alla causa, che il producea. Che sarebbe, diceva io, se un furbo speculatore mandasse in Africa ad esplorare dell’esser nostro, e ne scoprisse la falsità? Che sarebbe, se anche il domestico stanco della presente prosperità ne facesse alcun cenno agli amici, o per invidia tutta la macchina con tradimento palesasse? allora converrebbeci fuggir di nuovo, e tornarcene a viver tapini dopo aver superata quella prima miseria. Oh Dei del cielo, che vita meschina è quella de’ licenziosi! e temon sempre quel che si meritano.
Con questo pensier nella mente uscii di casa pieno di mal umore, affine di svagarmi alquanto all’aria libera: ed appena era entrato sul passeggio pubblico vennemi all’incontro una pulita fanciulla, e chiamatomi per nome Polieno, come mi si aveva stabilito in questa furberia, mi disse che la padrona sua mi pregava che io le accordassi il piacer di parlarmi.
T’inganni, rispos’io conturbato; schiavo forestiero son io, e affatto indegno di tanto onore.
Ella rispose: A te precisamente son io mandata; ma perchè tu conosci le tue bellezze, monti in superbia, e vendi i tuoi vezzi, e non li accordi. A qual fine que’ capegli arricciati? perchè quella faccia acconcia, e quel petulante girar degli occhi per ogni parte! A che quel portamento affettato, e que’ passi così misurati, che le orme stanno sempre ad egual distanza? se non per far pompa di bellezza, onde porla a prezzo? Quanto a me, vedi, nè conosco augurj, nè mi curo de’ pianeti degli astrologi; ma comprendo dai volti i costumi degli uomini, e solo in vederti passeggiare ho saputo ciò che hai nel cuore. Insomma o tu ci vendi quel ch’io ti chiedo, e il mercadante è bello è disposto: o se tu doni, locchè è più gentile, fà che a te se ne debbal’obbli-