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160 capitolo ventesimottavo

    O regina degli uomini e de’ numi,
Fortuna, a cui nessun potere aggrada
Che troppo saldo sia, che cose ognora
120Nuove ami, e tosto le abbandoni avute,
Ecchè? ti senti dal roman colosso
Ti senti vinta tu? Nè puoi più tanta
Sostener mole al suo perir vicina?
Non pregia più la gioventù di Roma
125Il suo proprio vigor, gli agi ammassati
Usa stolidamente. Osserva quanta
Licenza nelle vesti, osserva quanto
Ruinoso di spendere furore,
D’oro fanno edificj, e sino al cielo
130Alzano case; ove con densi muri
Lungi dai lidi spingon l’onde, ed ove
Introducono il mar ne’ campi loro:
Scompiglian tutto, cambian luogo a tutto,
Sino inoltrar ne’ regni miei li vedi.
135Da tali traforata insane moli
S’apre la terra: pei scavati monti
Gemono gli antri omai: che mentre il marmo
A vario uso s’impiega, a nuova luce
Son costrette aspirar l’ombre infernali.
140Dunque, o fortuna, fatti core, aggrotta
Quel tuo placido ciglio, i romani urta
E invia funebri al regno mio convogli.
Già da tempo lunghissimo le labbra
Ha inumidite a me sangue nessuno,
145Nè Tisifone mia le sitibonde
Membra mi ristorò dal dì che Silla
Dissetò la sua spada, e che la terra
D’ossa insepolte orridamente sparsa
Biade nodrite in sangue uman produsse.

    150Disse, e tentando la sua destra a quella
Stringere della Dea con ampia foce