Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/214

158 capitolo ventesimottavo

Portasi a mensa, e l’ostrica passata
Ne’ lucrin lidi,125 che le cene allunga,
E per danno maggior fame rinnova.
L’acqua del Fasi già d’augelli è priva,
55E appena suona su la muta sponda
L’aura solinga tra le vuote foglie.

    Nè men guasto è l’esercito, che omai
I comprati Romani offrir son usi
I richiesti suffragj ove maggiore
60È rumor di guadagno e di bottino.

    Venal senato, popolo venale;
Chi più spende ha favor: anche ai vecchiardi
Venuta è men la liberal virtute.
L’autorità gli avidi sguardi volge
65Sui diffusi agi, e per danar corrotta
Prostrata è sin la maestà latina.

    Vinto è Caton dal popolo ed espulso.126
Ma più infelice è il vincitor, cui pesa
(Pubblica infamia e de’ costumi peste)
70I fasci avere ad un Caton rapiti.
Non l’uom fu espulso, ma fu vinta in lui
La podestà, l’onor di Roma; ond’essa
Svergognata così di se fa prezzo,
Schiava si fa, nè v’è chi la riscatti
75E de’ pegni oltr’a ciò l’ingorda usura,127
E i frutti del danaro, han divorato
Le ricchezze sui due mari predate.
Nessun dell’aver suo, della sua casa
Senza mallevadore è più sicuro.
80Dal pestifero umor tacitamente
Ne’ midolli raccolto furibondo
Con acerbo dolor le membra scorre.
Sol dell’armi il mestiere ama il meschino