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fine del convito 93

Fortunata nol vuole. Tu la pensi così, o calore degli anni miei; ma io ti esorto a valerti de’ beni tuoi, o poiana, e non indispettirmi, gioia mia, altrimenti tu proverai questa mia testa. Ben mi conosci; una volta che io risolva una cosa, ella è fissa con un chiodo da trave. Ma ricordiamci de’ vivi.

Io vi consiglio, miei amici, a starvene allegramente; perchè io pur fui meschino siccome voi, e a questo stato pervenni col mio giudizio. Egli è un dito di cervello quel che fa gli uomini, tutto il resto è zero. Io compro con vantaggio, e vendo con pari vantaggio; un altro vi parlerebbe diversamente: io son colmo di felicità. E tu, ubbriacona, tu piangi ancora? frappoco io ti darò ben di che piangere il tuo destino.

Ma, com’io diceva, a questa fortuna il mio giudizio mi ha portato. Io venni d’Asia che era non più grande di questo candelabro, col quale io solea misurarmi ogni giorno, e perchè mi nascesse la barba al più presto usava ungermi d’olio le labbra. Durai tuttavia quattordici anni ad essere per lo mio meglio la donna di piacere del mio padrone; nè vi è male in ciò che il padron comanda. Io però soddisfaceva eziandio alla padrona mia. Ben capite quel che mi dico, giacchè non uso io di millantarmi. Alla fine, come piacque agli Dei, io divenni padron di casa, e cominciai a prender cervello. Che più? ei mi lasciò coerede collo Imperadore, e mi buscai un patrimonio senatoriale. Ma nessuno ne ha mai abbastanza: vennemi capriccio di negoziare; e per non trattenervi di troppo, fabbricai cinque navi, le caricai di vino; e allora venìa danaro per un altro verso. Un tratto le diressi a Roma, e (puoi ben credere ch’io non l’ordinai) fecer tutte naufragio: questo è fatto e non menzogna. Nettuno in un sol dì m’ingoiò due milioni. Pensate voi, ch’io perciò mi disanimassi? No, perdio, questa perdita io me la godetti, come se nulla fosse: altre navi fabbricai più grandi, più buone,