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86 | capitolo decimosesto |
d’argento, unsero i piedi agli sdraiati commensali, dopo aver loro allacciate e gambe e piedi e calcagni con varie ghirlande. Poi l’unguento medesimo fecer colare ne’ vasi di vino, e nelle lucerne.
Fortunata avea già dato segno di voler saltare, già Scintilla facea più applausi che parole, quando Trimalcione disse: Permetto a te, Filargiro, e a te Carrione, che sei famoso viaggiatore, ed alla tua moglie, o Minofilo, di sedervi a tavola.83
Che più? Noi fummo quasi cacciati dai nostri cuscini, tanto la sala erasi tutta empiuta di domestici. Io vidi collocato sopra di me quel cuoco, che di un pezzo di maiale aveva fatto un’oca: e’ puzzava di salamoia e di condimento: e non pago di sedersi a tavola cominciò a declamare per un buon tratto il tragico Tespi, indi provocò il padron suo a scommettere, che egli messosi nel partito verde avrebbe ne’ prossimi giochi circensi riportato il primo premio.
Tutto allegro Trimalcione di questa disfida, amici, disse, gli schiavi sono pur uomini, ed han bevuto lo stesso latte di noi, benchè un perverso destino gli opprima; pure, se il ciel mi salvi, essi respireranno presto un’aria libera. Insomma io li sciolgo tutti di schiavitù nel mio testamento.
Io lascio a Filargiro un campo e la donna sua. A Carrione lascio un’isola, l’un per cento sopra i miei beni, ed un letto compiuto. Quanto alla mia Fortunata io la faccio erede universale, e a tutti gli amici miei la raccomando. Tutte queste cose io rendo pubbliche, onde la mia famiglia tanto ora mi ami, quanto mi amerà allorchè sarò morto.
Mettevansi tutti a render grazie di tanta bontà al padron loro, quand’egli, sospendendo ogni facezia, si fe’ portar copia del testamento, che tutto egli lesse da principio sino alla fine, in mezzo ai sospiri della famiglia. Rivoltosi poi ad Abinna, che ne dì tu, carissimo