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52 | capitolo tredicesimo |
ad un funerale. Il bello, e sì buon Crisanto rese l’anima: son pochi momenti, ch’ei mi ha chiamato; parmi esser ancora con lui. Ohimè, ohimè, noi passeggiamo come palloni gonfi, e siamo meno che mosche, le quali hanno pure qualche virtù: non siamo dappiù di quelle pallottole, che i ragazzi fanno con acqua e sapone. Che sarebbesi detto s’ei non fosse stato sì temperato? Non gli entrò in bocca per cinque giorni una gocciola d’acqua, non una fregola di pane, eppur è morto. Ma i tanti medici lo han rovinato; o per dir meglio, il contrario destino. Imperocchè il medico non è altro che un conforto dell’animo. Pur egli è basìto sopra un letto sanissimo, con ottime lenzuola. Egli è pianto da tutti: ha fatto qualche liberto: ma forse le lagrime della moglie sono un poco bugiarde. Che avrebb’ella fatto s’ei non l’avesse ottimamente tenuta? Ma la donna è del genere de’ nibbj: non bisogna usar bene con alcuna, perchè gli è come buttarlo in un pozzo. Un amor vecchio è pure un imbarazzo.
Filerone molestamente interruppe, dicendo: Parliam de’ vivi: Crisanto ha avuto quel che gli competeva: ben visse, e ben morì: di che può lagnarsi? ei si levò dal nulla, e fu sempre disposto a raccor colla lingua un quattrin da una fogna: così si fe’ grande, e crebbe a guisa di un favo. Io penso perdio che egli abbia lasciato cento mila scudi, e tutti in danaro sonante. Pur io voglio dir di lui quel che è vero, giacchè io son la bocca della verità. Ei fu disobbligante, linguacciuto, discordia e non uomo. Il fratel suo fu forte, amico dell’amico, colle mani forate, e facea mangiar bene. A principio egli avea poco pelo in barba; ma alla prima vindemmia allargossi ne’ fianchi, perchè vendette il vin quanto volle; e, ciò che gli fece alzar la testa, ebbe una eredità, della quale però è più quel che ha rubato di quello che gli è rimasto. E poi quel tanghero, essendo in rotta con suo fratello, lasciò la sua roba a