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166 | lettere di fra paolo sarpi. |
come mi sieno giunte sì tardi, quella segnatamente di due mesi fa; quando ricevo sempre fra 15 giorni le lettere del signor Castrino. Spiacquemi l’indugio assai, specialmente per quello che scrisse sul decreto del conte di Lemos, di cui fin qui non s’era intesa da noi alcuna novella; e già sarei stato informato di tutto l’affare, se in tempo avessi ricevuto le lettere. Mi è sembrata tal cosa di tanto rilievo, da credere che niente siasi in alcun luogo operato di più conducente alla utilità pubblica; e mi meraviglio che un sì gran beneficio ci sia stato sì lungamente ignoto. E vorrei che fosse vero; ma temo ci cada esagerazione, e non siasi fatta alcuna novità ma cosa ordinaria; di che si lamentano spesso, quantunque invano, i pontefici, affinchè non s’abbia a dire essersi mantenuta la usurpazione con loro saputa e tolleranza. Non passerà l’anno che mi sarà del tutto chiaro l’affare, e subito gliene scriverò.
Quanto al libro del Bellarmino, me ne sbrigherò in una sola parola. È come un canto di vittoria per la morte del re, e quel che altri può congetturare, ponendo mente al tempo e all’altre circostanze. Se l’Università, o chi per essa scrisse (ch’io pregio non meno della Università), portò giudizio sulla opinione che mette il papa innanzi al Concilio, che pensare di quella dottrina che concede precariamente ai principi non solo i regni, ma persino la vita? So che cotesto nunzio si è lamentato perchè il libro sia stato proibito dal pretore della città, ed ha aggiunto che ciò dava facoltà agli altri di riscrivere in senso contrario. Io amerei che il libro fosse condannato per sentenza concorde della Università, meglio che confutato per gli scritti dei privati. Ma se la prima