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lettere di fra paolo sarpi. | 143 |
larmino c’intuona adesso senza ambagi, aver Cristo comandato che si renda a Cesare ciò che è di Cesare, finch’egli sarà Cesare; avere gli Apostoli ingiunta l’obbedienza ai re, sintanto che re sono; ma che non appena essi vengono dal papa privati del dominio, cessano ancora di essere e Cesari e re. E tutto ciò stimerei anche di leggier peso, se il gesuita nostro non chiamasse quelli che da lui dissentono, temerari, scandalosi, eretici; se non venisse sclamando, codeste sue massime esser fede di tutta quanta la Chiesa; se gli altri tutti non predicasse parassiti dei principi, e uguali agli etnici ed ai pubblicani.
Credè il Barclaio di poter convincerne questi papisti coll’opporre ad essi il costume dell’antica Chiesa, la quale fa obbediente ai principi, ancorchè cattivi ed eretici ed anche apostati. Ma ciò nemmeno gli valse. Confessa il Bellarmino, che quella obbedì e predicò obbedienza, perchè mancante di forze e di occasione; e aggiunge che nè fatto nè parlato avrebbe in tal guisa, se dai loro troni potuto avesse cacciarli. Il buon Barklay fece ancora un mal ufficio verso i privati, quando volle opporre al Bellarmino, che così i principi sarebbero in peggior condizione dei privati; perchè mentre questi non possono dei lor beni essere spogliati, possono invece quelli esser cacciati dai loro regni ed imperi. Ed ecco che questa obiezione diè luogo ad una nuova e finora inaudita sentenza: potere il papa disporre delle sostanze tutte di ciascun privato, secondochè gli sembri che la utilità della Chiesa addimandi. Che dirò davvantaggio? Una tale potestà di costringere i fedeli, il nostro gesuita la estende finanche ai confessori.