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fra paolo sarpi. xxv

leghe, ribellioni, tradimenti, matrimoni ed altri cosiffatti maneggi temporali; cavando prima dalle confessioni, e da certa loro dimestica conversazione con i figli e con le femmine, i segreti tutti delle città e delli paesi, e intromettendovi quello che hanno giudicato bene per servire alle cose de’ Spagnuoli.» Poteva il Sarpi non essere acerbo e indefesso nemico di costoro? Anche senza l’accidente delle contese tra Roma e Venezia, tale sarebbe stato. Egli sapeva che «non ci è impresa maggiore che levare il credito a’ Gesuiti: vinti questi, Roma è persa; e senza questa, la religione si riforma da sè.1» Egli vedeva più chiaro degli altri. «Nessuno fra noi ignora che lo Spagnuolo ci è nemico; ma non tutti sanno che più assai nemico ci è il Papa, perchè i più si lasciano ingannare dai suoi puttaneschi artificii.2» Il Sarpi, per ultimo vedeva che il papa, malgrado delle velleità d’indipendenza, non poteva sostenersi se non mettendosi sotto Spagna.3 Così l’eccessive dottrine de’ Gesuiti sull’autorità del papa (di che vedi nelle lettere in cui parla del Bellarmino) riuscivano a soggettare le anime e i corpi ad una tirannide sconfinata per l’accordo de’ re e dei preti. Egli è perciò che il Sarpi è schivo della scuola politica de’ suoi tempi, tutta intenta a esaltare e dar le regole del principato assoluto, e si accosta a quelli che il volevano temperare; e vede chiaro i due doppi uffici del protestantismo a’ suoi giorni:


  1. Lett. CLXXVII.
  2. Lett. CXLVI.
  3. Lett. CLXXVII.