stro paese, che coloro che si trovano nel grado dov’io ora mi trovo, non possono perder la grazia di chi governa senza perdere ancora la vita.1» Quindi è che l’uomo cautissimo non poteva per nulla patire la dottrina de’ Gesuiti intorno all’equivoco, ed esce in queste solenni parole: «Quello che i Gesuiti insegnano in proposito del regicidio, è, al mio parere, un perniciosissimo dogma, perchè ne viene il sovvertimento della cosa pubblica: ma l’insegnare ch’essi fanno, come sia lecito usare senza peccato gli equivoci di parole e la restrizione mentale, colla quale dottrina si distrugge ogni umana convivenza, e l’arte d’ingannare, di cui nulla v’ha più dannoso, si pareggia alla virtù; questa dottrina oso dire esser anco più perniciosa dell’altra che insegna ad uccidere i re.2» Fra Paolo professa la sobria e limpida schiettezza cristiana; e nel Trattato delle materie beneficiarie, nota diligentemente l’improprietà di alcuni titoli, come di Beatissimo o di Santo quando si usano non come titoli di bontà quali suonano, ma come titoli di grandezza; e al modo suo di mettere i frizzi a tempo, racconta come Anselmo lucchese, partigiano di Gregorio VII, disse non esser meno improprio ed empio il plurale del nome Deus, che quello del nome Papa. E cotali orgogliose vanità sa bellamente punzecchiare, le quali poi, rispetto al papato, riuscivano in una matta ed empia papolatria. E il nostro buon Frate domandava di un giovine di belle speranze:
- ↑ Lettera CXCIX.
- ↑ Lettera CLII.