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xviii fra paolo sarpi.

stro paese, che coloro che si trovano nel grado dov’io ora mi trovo, non possono perder la grazia di chi governa senza perdere ancora la vita.1» Quindi è che l’uomo cautissimo non poteva per nulla patire la dottrina de’ Gesuiti intorno all’equivoco, ed esce in queste solenni parole: «Quello che i Gesuiti insegnano in proposito del regicidio, è, al mio parere, un perniciosissimo dogma, perchè ne viene il sovvertimento della cosa pubblica: ma l’insegnare ch’essi fanno, come sia lecito usare senza peccato gli equivoci di parole e la restrizione mentale, colla quale dottrina si distrugge ogni umana convivenza, e l’arte d’ingannare, di cui nulla v’ha più dannoso, si pareggia alla virtù; questa dottrina oso dire esser anco più perniciosa dell’altra che insegna ad uccidere i re.2» Fra Paolo professa la sobria e limpida schiettezza cristiana; e nel Trattato delle materie beneficiarie, nota diligentemente l’improprietà di alcuni titoli, come di Beatissimo o di Santo quando si usano non come titoli di bontà quali suonano, ma come titoli di grandezza; e al modo suo di mettere i frizzi a tempo, racconta come Anselmo lucchese, partigiano di Gregorio VII, disse non esser meno improprio ed empio il plurale del nome Deus, che quello del nome Papa. E cotali orgogliose vanità sa bellamente punzecchiare, le quali poi, rispetto al papato, riuscivano in una matta ed empia papolatria. E il nostro buon Frate domandava di un giovine di belle speranze:


  1. Lettera CXCIX.
  2. Lettera CLII.