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94 i processi di roma


— A che ritornaste, sconsigliato? Sperate forse di ridonare la libertà a coloro che nominaste, ormai non è più cosa possibile.

— Ebbene, io sarò pago di morire con essi. Sapranno almeno che io non ho acconsentito a dividere la mia dalla loro fortuna.

— Ah giovane, giovane! esclamò monsignor Pagni crollando la testa: questi sentimenti sono belli da leggersi nei libri di Plutarco, ma nella realtà della vita...

— Voi, voi, sacerdoti, proruppe Curzio, ci vorreste santi nelle massime, perfidi nella realtà. Voi ci vorreste ipocriti e bugiardi, anneghititi e schiavi, turpemente vigliacchi, per tenerci più sicuramente il piede sul collo. Ma no, viva Dio! qui dentro abbiamo ancora un alito di vita; e tanti secoli, nei quali ci avete addensata intorno quest’atmosfera di piombo non ebbero potere di soffocare ne’ nostri petti il libero respiro. Arde ancora, scintilla la virtù latina. E voi lo sapete, voi che tremate, nell’intimo del cuore; e paurosi vi raccomandate alle spie e ai carcerieri, ai monaci e al boja, perchè sperdano e struggano la semenza dei framassoni! Sciagurati! a che vi giovano le catene ed il sangue? Un popolo non si uccide, un’idea non si estingue. Il sangue sparso ricade in tanta vergogna sulle vostre teste; e affretta il giorno della giustizia.

— Sangue caldo! testa esaltata! pensava intanto fra sè il prelato, crollando sempre la testa. Se io lo rimettessi in libertà, costui si rovinerebbe senza rimedio. Come fare adunque?

Stette alquanto pensieroso come chi cerca un consiglio, poi con un gesto risoluto.

— Non c’è altro partito! esclamò.

Si alzò, si avvicinò a una tavola; scrisse alcune righe sopra un foglio, volse un ultimo sguardo a Curzio senza parlare, e uscì dalla stanza.

Consegnò lo scritto con poche parole a un ufficiale superiore dei gendarmi, che lo accompagnò fino alla carrozza. Prima di salire in legno il prelato porse la sua mano a baciare agli ufficiali, poi ordinò al cocchiere:

— Al Vaticano!

Poche ore dopo la visita di monsignor Pagni, Curzio veniva posto in una vettura chiusa ermeticamente, la quale si avviò colla scorta dei gendarmi a cavallo verso Civitavecchia. Giunto in quella città, fu introdotto nella fortezza, e là dentro venne serrato in una prigione, e dato in custodia ai profossi militari.

Da quel momento il più assoluto segreto circondò il prigioniero. I suoi guardiani erano tedeschi, che non sapevano una parola d’italiano. Avevano per consegna di usargli ogni riguardo, di non lasciargli mancare alcuna cosa; e nello stesso tempo d’impedire il minimo tentativo d’evasione e qualsiasi comunicazione del detenuto col di fuori.

Curzio non vide più che i volti austeri dei profossi, dei quali non capiva