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18 | i processi di roma |
V.
Gli spasimi di don Omobono.
Il povero prete metteva paura a vederlo; stava rannicchiato, colla testa sprofondata fra le spalle e tutta nascosta nel cappellaccio, le gambe piegate e le ginocchia che si toccavano. I denti gli battevano come per freddo, e i muscoli della sua faccia erano ad ogni momento travagliati da un contorcimento convulsivo, che gli faceva allargare la bocca in direzione delle orecchie, e avvicinare la punta del naso a quella del mento.
― Che cos’ha, don Omobono? chiese Teresa.
― Niente, niente, balbettò egli. Mi permettete di passare per andare nella mia stanza?
― S’accomodi pure.
Convien sapere che l’ingresso principale della casa, donde avrebbe dovuto passare don Omobono per andare nella sua stanza, era aperto sopra una delle strade principali di Trastevere; mentre invece l’alloggio delle donne, per il quale si poteva passare in quello del prete, aveva un’uscita sul vicolo adiacente.
― Perchè non è passato dalla parte della strada? gli domandò Teresa.
― Perchè rispose, in questi giorni di pericolo io non mi azzardo a camminare senonchè pei vicoli, e cerco anche di sgambettare presto presto e scivolare rasente i muri, per essere veduto il meno che sia possibile.
― E di che cosa ha paura?
― Che so io? qualche gran cosa è imminente. Non avete sentite le trombe poco fa? erano gli zuavi che andavano a raddoppiare i corpi di guardia. Scommetto io che fra poco sentiremo le fucilate anche in città!
― Sapete che cosa ho sentito dire?
― Che cosa? via?
― Che Garibaldi abbia già passato Ponte-Molle.
― Il ciel lo volesse! esclamò Teresa. Io andrei subito ad incontrarlo.
― Ed io, disse don Omobono, andrei subito a nascondermi in cantina.
― Ma che cantina! Via, si faccia coraggio. Io le darò un talismano, con cui potrà presentarsi arditamente dinanzi ai garibaldini senza paura, anzi colla certezza di essere festeggiato.
― Che cosa mai? vediamo.