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sembrò la caserma inabissasse e profondasse capovolta; i lumi si spensero tutti; un fitto polverio invase ogni parte: al terrore succedè momentanea e profonda quiete. Chè, smarriti i militi a quella inaspettata scossa, incerti di che si minacciasse a loro danno, stettero per alcun tempo in forse: indi animosamente, brancicando e barcollando nel buio, diedero di piglio alle armi, vennero all’aperto in sulla strada. Tutto era tenebre e mortale silenzio; una polvere densissima spinta dal vento trascorrea vorticosa largamente intorno; l’angolo esterno della caserma, fra la via de’ Penitenzieri e l’altra di Borgo Vecchio, caduto a grande spazio in ruina: di là a quando a quando uscivano lamentosi e fiochi gemiti perdentisi fra i sassi e i massi delle diroccate mura. In quelle distrette corsero eglino a guardare i passi; accesero torcie a vento, si munirono di attrezzi, che in sull’atto poterono avere acconci a scavare, si provarono di soccorrere i loro commilitoni feriti o morenti, traendoli di sotto alle macerie: nel che, coadiuvati più tardi dal benemerito Corpo de’ Vigili, riuscirono a camparne parecchi, non senza esporsi a gravi pericoli. Perchè, solleciti tutti più dell’altrui che della propria salvezza, operarono spesso in quella notte sotto mura squarciate e cadenti, con sovra al capo lunghe travi penzolanti, tra fucili carichi colle casse scavezze, facili a scattare al più lieve urto, e sopra mazzi di cartucce qua e là seminati, cui una scintilla sola bastava ad accendere. Ventiquattro furono i morti scavati dalla notte anzidetta sino al giorno 2 di novembre, dei quali 22 zuavi e due borghesi, cioè l’operaio sunnominato Francesco Ferri e la sua figliuoletta Rosa; tredici i feriti, compresa la donna Giuseppa, moglie del Ferri. Di questi, tre cessarono di vivere in progresso di cura. Onde, si ebbero a lamentare danni più o meno gravi a dieci persone e la perdita di ventisette individui.

La direzione generale di polizia nei giorni 7 e 28 novembre 1868, per due diverse relazioni di due che sostennero le prime parti nella rivoluzione, venne istruita di tutto il piano di essa, come concepita, da chi diretta, a quali fini, e dei particolari più minuti di esecuzione: rivelazioni che poi furono ampiamente confermate dalle confessioni giudiziali di Monti e degli altri ugualmente confessi. Le seguenti parole attribuite al Castellazzo, e che leggonsi in aggiunta a quelle rivelazioni, meritano per la importanza loro di essere riferite, siccome quelle che confermando la lealtà onesta del Governo italiano, rivelano per nuova prova di fatto la concordia fraterna e politica per la quale gl’Italiani sono congiunti fra di loro.

“Garibaldi aveva ordine di non entrare in Roma, ma solamente costeggiare le mura per incoraggiare l’insurrezione; ed allorchè fosse stata questa superata, sarebbe entrata in Roma la truppa regolare italiana col pretesto di mettere l’ordine; se fosse entrato prima Garibaldi, si temeva non di lui, ch’era di perfetto accordo con Rattazzi, ma dei molti che lo