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166 | i processi di roma |
Così dicendo, la povera donna diede in uno scoppio di pianto, che le sollevò il cuore: erano due giorni che non poteva più piangere.
Poi corse ad abbracciare ad uno ad uno i suoi piccini.
— E io vi condurrò in salvo, miei cari, diceva intanto. Finchè stavamo qui, io temeva per voi altri; pareva che un funesto presentimento mi avvertisse di qualche male che vi sovrastasse. Ma ora, grazie a Dio, potrò condurvi meco; andremo insieme dove si respira aria libera e si dormono i sonni tranquilli. Presto, presto, non tardiamo un momento. Teresa, aiutami a riempiere questa cassetta, e poi...
— Ma prima..., soggiunse don Omobono, parlando a stento, come se un nodo gli avesse serrata la gola. Prima bisogna... che voi andiate in persona alla Direzione di Polizia... per la vidimazione del passaporto, altrimenti...
— Ebbene, vado subito. Attendi ai ragazzi, Teresa. Ritorno in un batter d’occhio. Ogni ora che rimango in Roma, mi pare un secolo. Pare che il terreno mi bruci sotto i piedi. Dammi lo sciallo. Grazie anche una volta, don Omobono.
E Lucia si avviò rapidamente verso la porta.
Il povero prete non ne poteva più; la fiducia di Lucia, la sua gratitudine, le espansioni del suo amor materno, erano altrettanti colpi di pugnale per lui, che sapeva d’esser venuto a far la parte di Giuda. E quand’essa, dopo aver baciati un’ultima volta i suoi figli, si avviò rapidamente, tenendo fra le mani il passaporto, egli non resse più, e la richiamò, gridando:
— Lucia, aspettate!
— Che cos’è? cosa vuole?
— Per quanto amate i vostri figli, non andate alla Direzione di Polizia.
— Ma perchè?
— Quel passaporto è un inganno.
— Che cosa dice?
— Non mi chiedete altro. Salvatevi, fuggite, se potete, ma non fate uso di quel passaporto: quello è il segnale per farvi arrestare, per portar via i vostri figli.
— Ah! gridò Lucia, correndo a raccogliere i suoi figliuoli in un gruppo, che abbracciò in ginocchio.
— E lei me l’ha portato! disse poscia verso don Omobono.
— Fui costretto! me l’avevano comandato! Ma io, no, non mi sento la forza di tradirvi, povera donna; facciano pure quel che vogliono, mi chiudano a San Michele, mi taglino anche la testa, ma io voglio salvare l’anima mia.
Bisogna credere che don Omobono fosse arrivato a un grado supremo di esaltamento, per lanciare quella eroica sfida alla morte, e più ancora per cercare la salvezza dell’anima fuori dei precetti de’ suoi superiori.