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monti e tognetti | 165 |
di sacerdote timido e pauroso, escludeva la possibilità di un tradimento. Tutto doveva adunque andare, secondo essi, per lo meglio.
Avevano fatti i conti senza il cuore di don Omobono; sì, questo cuoruccio, sebbene rincantucciato e impicciolito dalle frequenti paure, batteva ancora in un angolo di quel petto scarno e incavato. Il buon pretucolo si sentì rimescolare tutto all’idea di quel tradimento inaudito, che pareva al gesuita cosa tanto piana e naturale, da non farne nemmeno soggetto di discussione. D’altra parte però, l’obbedienza ai superiori ecclesiastici, in nome dei quali padre Bindi gli aveva parlato, sembrava a quell’omiciattolo, ch’era la genuflessione incarnata, una ineluttabile necessità. Combattevano dunque aspramente nel suo interno due principii, che la Chiesa Romana pone sempre in lotta fra loro: il sentimento del cuore, e il dovere dell’obbedienza passiva.
Per quanto il velo dell’ipocrisia avesse ravvolte le intenzioni dei gesuiti sulla superstite famiglia del condannato, quelle intenzioni dovevano apparire alla mente ingenua di don Omobono ciò che erano realmente, cioè, infamie belle e buone. Disporre dei figli contro il volere della madre, carcerare per tutta la vita una povera donna, di null’altro colpevole che di amare la sua prole e d’esser devota alla memoria di suo marito; trarla in inganno con un’offerta mendace, e farle trovare l’ultima rovina là dove le si prometteva salvezza, sono delitti che nessuna religione può giustificare, e contro essi si ribellava, suo malgrado, la coscienza di don Omobono.
Ne veniva di conseguenza, che se fece a lenti passi la strada che lo condusse al Gesù, ora poi non sapeva decidersi in nessuna maniera a imbroccare la via che doveva condurlo a Trastevere. Sostava a ogni tratto, retrocedeva a modo dei gamberi, cambiava strada, faceva strane giravolte, e chi l’avesse osservato e seguito, avrebbe creduto che gli fosse dato volta al cervello.
Finalmente, quando Dio volle, pose il piede sulla soglia della casetta, come sulla vetta del Golgota, sospirando e travolgendo gli occhi.
Lucia, meravigliata del suo ritorno, gli chiese che cosa gli recasse.
— Una buona notizia, disse don Omobono, col fare di chi trangugia un boccone amaro.
— A modo dell’altra? In tal caso, la tenga per sẻ.
— No... prendete.
E senz’altre parole, chè troppo gli costava il parlare, le porse il passaporto traditore.
— Oh, bravo! esclamò Teresa; questo sì, ch’è un regalo che mi piace; e la ringrazio, don Omobono, e Dio le ne renda merito. Guarda, Teresa, un passaporto per andarmene dagli Stati del Papa. Io ritornerò a Fermo, e anche tu ci verrai. Ritornerò a Fermo chi me l’avesse detto ritornare senza il mio Peppe... il mio Peppe, finito a quel modo!