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122 i processi di roma

loggetta coperta, che guardava il mare. Gli era accordata un’ora di passeggio ogni giorno su quella loggetta.

Gli sguardi di Curzio in quell’ora di sollievo, nella quale poteva godere dell’aria e della luce a suo piacere spaziavano sulla vasta superficie delle acque, e la sua mente trasvolava in quei sogni di libertà, che sono così cari al prigioniero. Avveniva qualche volta che la sua attenzione era attirata più in basso da un rumore di catene e da un indistinto frastuono di voci.

Il prigioniero si volgeva allora a guardare in fondo alle mura stesse della fortezza, e scorgeva dapprima un indistinto brulicare d’esseri viventi somiglianti a uno sciame di rettili raggomitolati nel fondo di un pozzo; poi guardando meglio si avvedeva che quegli esseri appartenevano alla razza umana. Erano infatti uomini, vestiti uniformemente a righe di colore oscuro, e agglomerati in un profondo e fetido cortile; alcuno di essi mandava ad ogni passo il lugubre suono dei ferri che gli stavano avvinti a’ piedi; altri appajati dai ceppi, erano costretti a muoversi di concerto. Erano insomma galeotti.

Eppure quegli uomini chiacchieravano, scherzavano allegramente, a giudicare dai loro movimenti e dalle voci, e qualche volta uno scroscio di risa schietto e romoroso giungeva fino alle orecchie di Curzio.

Egli rabbrividiva allora, pensando che anch’esso poteva essere condannato alla galera, e quindi venire calcato in quella putrida fogna, e frammisto a quei volgari malfattori, a quei ladri, a quegli omicidi, che colle infami vesti sul dosso, e colle colpe più infami sulla coscienza ridevano della pena insieme e del delitto.

Pensava che più dolce sarebbe in tal caso la morte incontrata e subita in un punto, e gli sorgea la voglia di precipitarsi giù da quella loggia andando a battere il capo sulle pietre o le roccie del fondo. Ma l’idea del dovere lo tratteneva dal farlo. Egli rifletteva che fino a tanto che fosse in lui fiato di vita poteva tornar utile alla sorte de’ suoi fratelli, e quindi non aveva il diritto di disporre de’ suoi giorni, finchè quelli dei compagni fossero in pericolo.

E così pensando, lo angosciava l’idea di essere là chiuso e isolato, e di non poter far nulla per essi. Cento volte aveva chiesto a’ suoi carcerieri con parole e con cenni, che lo facessero parlare con un giudice, con un uditore, con un ufficiale qualunque. Esso aveva l’intenzione di fare una deposizione sul fatto della mina, in modo da aggravare tutta la colpa sopra sè stesso, e così giovare in qualche modo a Monti e Tognetti. Ma quei militari, non intendevano, o fingevano di non intendere, e non rispondevano in modo alcuno alle sue interrogazioni, tali essendo gli ordini che dovevano eseguire.

Un giorno il giovane prigioniero tutto rapito da’ suoi pensieri, misurava a gran passi la piccola loggia, sì che in tanta strettezza di spazio gli era forza