Pagina:Sannazaro - Arcadia, 1806.djvu/243


213

si perde; ogni speranza è mancata; ogni consolazione è morta. Non ti rimane altro omai, sampogna mia, se non dolerti, e notte e giorno con ostinata perseveranza attristarti. Attristati adunque, dolorosissima: e quanto più puoi, dell’avara morte, del sordo cielo, delle crude stelle, e de’ tuoi fati iniquissimi ti lamenta. E se tra questi rami il vento per avventura movendoti ti donasse spirilo, non far mai altro che gridare, mentre quel fiato ti basta. Nè ti curare, se alcuno, usato forse di udire più esquisiti suoni, con ischifo gusto schernisse la tua bassezza, o ti chiamasse rozza: che veramente, se ben pensi, questa è la tua propria e principalissima lode; purchè da’ boschi, e da’ luoghi a te convenienti non ti diparta. Ove ancora so che non mancheran di quelli, che con acuto giudicio esaminando le tue parole, dicano, te in qualche luogo non bene aver servate le leggi de’ pastori; nè convenirsi ad alcuno passar più avanti, che a lui si appartiene. A questi, confessando ingenuamente la tua colpa, voglio che rispondi, ninno aratore trovarsi mai sì esperto nel far de’ solchi, che sempre prometter si possa, senza deviare, di menarli tutti dritti. Benchè a te non picciola scusa fia lo essere in questo secolo stata prima a risvegliare le addormentale selve, ed a mostrare a’ pastori di cantare le già dimenticate canzoni. Tanto più che colui, il quale li compose di queste canne, quando in Arcadia venne, non come rustico pastore, ma come coltissimo giovane, benchè sconosciuto, e peregrino di amore, vi si condusse. Senza che in altri tempi sono già stati pastori sì audaci, che