si perde; ogni speranza è mancata; ogni consolazione
è morta. Non ti rimane altro omai,
sampogna mia, se non dolerti, e notte e giorno
con ostinata perseveranza attristarti. Attristati
adunque, dolorosissima: e quanto più
puoi, dell’avara morte, del sordo cielo, delle
crude stelle, e de’ tuoi fati iniquissimi ti lamenta.
E se tra questi rami il vento per avventura
movendoti ti donasse spirilo, non far
mai altro che gridare, mentre quel fiato ti basta.
Nè ti curare, se alcuno, usato forse di udire
più esquisiti suoni, con ischifo gusto schernisse
la tua bassezza, o ti chiamasse rozza: che
veramente, se ben pensi, questa è la tua propria
e principalissima lode; purchè da’ boschi,
e da’ luoghi a te convenienti non ti diparta.
Ove ancora so che non mancheran di quelli,
che con acuto giudicio esaminando le tue parole,
dicano, te in qualche luogo non bene
aver servate le leggi de’ pastori; nè convenirsi
ad alcuno passar più avanti, che a lui si appartiene.
A questi, confessando ingenuamente
la tua colpa, voglio che rispondi, ninno aratore
trovarsi mai sì esperto nel far de’ solchi,
che sempre prometter si possa, senza deviare,
di menarli tutti dritti. Benchè a te non picciola
scusa fia lo essere in questo secolo stata prima
a risvegliare le addormentale selve, ed a mostrare
a’ pastori di cantare le già dimenticate
canzoni. Tanto più che colui, il quale li compose
di queste canne, quando in Arcadia venne,
non come rustico pastore, ma come coltissimo
giovane, benchè sconosciuto, e peregrino
di amore, vi si condusse. Senza che in
altri tempi sono già stati pastori sì audaci, che