Felice Orfeo, ch’innanzi l’ore estreme,
Per ricovrar colei che pianse tanto,
Sicuro andò dove più andar si teme.
Vinse Megera, vinse Radamanto;
A pietà mosse il re del crudo regno.
Ricominciate, muse, il vostro pianto.
Or perchè, lasso, al suon del curvo legno
Temprar non lice a me sì meste note,
Ch’impetri grazia del mio caro pegno?
E se le rime mie non son sì note,
Come quelle d’Orfeo, pur la pietade
Dovrebbe farle in ciel dolci e devote.
Ma se schernendo nostra umanitade,
Schifasse ella il venir; sarei ben lieto
Di trovar all’uscir chiuse le strade.
O desir vano, o mio stato inquieto!
E so pur che con erba o con incauto
Mutar non posso l’immortal decreto.
Ben può quel nitido uscio d’elefanto
Mandarmi in sogno il volto e la favella.
Ricominciate, muse, il vostro pianto.
Ma ristorar non può nè darmi quella
Che cieco mi lasciò senza il suo lume,
Nè torre al ciel sì pellegrina stella.
Ma tu, ben nato avventuroso fiume,
Convoca le tue ninfe al sacro fondo,
E rinnova il tuo antico almo costume.
Tu la bella Sirena in tutto il mondo
Facesti nota con sì altera tomba:
Quel fu ’l primo dolor, quest’è ’l secondo.
Fa che costei ritrove un’altra tromba
Che di lei caute; acciocchè s’oda sempre
Il nome che da se stesso rimbomba.
E, se per pioggia mai non si distempre
Il tuo bel corso; aita in qualche parte
Il rozzo stil, sicchè pietade il tempre.