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Piangi, Jacinto, le tue belle spoglie,
E raddoppiando le querele antiche,
Descrivi i miei dolori in le tue foglie.
E voi, liti beati, e piagge apriche,
Ricordate a Narcisso il suo dolore,
Se già mai foste di miei preghi amiche.
Non verdeggi per campi erba nè fiore;
Nè si scerna più in rosa o in amaranto
Quel bel vivo leggiadro almo colore.
Lasso, chi può sperar più gloria o vanto?
Morta è la fe, morto è ’l giudicio fido.
Ricominciate, muse, il vostro pianto.
E mentre sospirando indarno io grido,
Voi, uccelletti innamorati e gai,
Uscite, prego, dall’amato nido.
O Filomena, che gli antichi guai
Rinnovi ogni anno, e con soavi accenti
Da selve e da spelunche udir ti fai;
E se tu, Progne, è ver, ch’or li lamenti,
Nè con la forma ti fur tolti i sensi,
Ma del tuo fallo ancor ti lagni e penti;
Lasciate, prego, i vostri gridi intensi,
E fin ch’io nel mio dir diventi roco,
Nessuna del suo mal ragioni o pensi.
Ahi, ahi, seccan le spine; e poi ch’un poco
Son state a ricovrar l’antica forza,
Ciascuna torna, e nasce al proprio loco:
Ma noi, poi che una volta il ciel ne sforza,
Vento nè sol nè pioggia o primavera
Basta a tornarne in la terrena scorza.
E ’l sol fuggendo ancor da mane a sera,
Ne mena i giorni e ’l viver uoslro insieme;
Ed ei ritorna pur come prim’era.