Pagina:Sannazaro - Arcadia, 1806.djvu/119


89

tra, farsi le notturne escubie; perocchè dai nostri assalti non vivea ancora di mezzo giorno sicura. Ed al bianco cigno che giovava abitare nelle umide acque per guardarsi dal foco, temendo del caso di Fetonte, se in mezzo di quelle non si potea egli dalle nostre insidie guardare? E tu, misera e cattivella perdice, a che schifavi gli alti tetti, pensando al fiero avvenimento dell’antica caduta, se nella piana terra quando più sicura stare ti credevi, nelli nostri lacciuoli incappavi? Chi crederebbe possibile, che la sagace oca, sollicita palesatrice delle notturne frode, non sapeva a se medesima le nostre insidie palesare? Similmente de’ fagiani, delle tortore, delle colombe, delle fluviali anitre, e degli altri uccelli vi dico. Niuno ne fu mai di tanta astuzia dalla natura dotato, il quale da’ nostri ingegni guardandosi, si potesse lunga libertà promettere. Ed acciocchè io ogni particella non vada raccontando, dico adunque, che venendo, come udito avete, di tempo in tempo più crescendo la età, la lunga e continua usanza si converti in tanto e sì fiero amore, che mai pace non sentiva, se non quanto di costei pensava; e non avendo, siccome tu poco innanzi dicesti, ardire di discoprirmele in cosa alcuna, era divenuto in vista tale, che non che gli altri pastori ne parlavano, ma ella, che, di ciò nulla sapendo, di buon zelo affettuosissimamente mi amava, con dolore e pietà inestimabile ne stava maravigliata; e non una volta, ma mille con istanzia grandissima pregandomi, che ’l chiuso cuore le palesassi, e ’l nome di colei, che di ciò mi era cagione, le facessi chiaro. Io, che del