tra, farsi le notturne escubie; perocchè dai nostri
assalti non vivea ancora di mezzo giorno
sicura. Ed al bianco cigno che giovava abitare
nelle umide acque per guardarsi dal foco, temendo
del caso di Fetonte, se in mezzo di
quelle non si potea egli dalle nostre insidie
guardare? E tu, misera e cattivella perdice, a
che schifavi gli alti tetti, pensando al fiero
avvenimento dell’antica caduta, se nella piana
terra quando più sicura stare ti credevi, nelli
nostri lacciuoli incappavi? Chi crederebbe possibile,
che la sagace oca, sollicita palesatrice
delle notturne frode, non sapeva a se medesima
le nostre insidie palesare? Similmente de’
fagiani, delle tortore, delle colombe, delle fluviali
anitre, e degli altri uccelli vi dico. Niuno
ne fu mai di tanta astuzia dalla natura dotato,
il quale da’ nostri ingegni guardandosi,
si potesse lunga libertà promettere. Ed acciocchè
io ogni particella non vada raccontando,
dico adunque, che venendo, come udito avete,
di tempo in tempo più crescendo la età,
la lunga e continua usanza si converti in tanto
e sì fiero amore, che mai pace non sentiva, se
non quanto di costei pensava; e non avendo,
siccome tu poco innanzi dicesti, ardire di discoprirmele
in cosa alcuna, era divenuto in vista
tale, che non che gli altri pastori ne parlavano,
ma ella, che, di ciò nulla sapendo,
di buon zelo affettuosissimamente mi amava,
con dolore e pietà inestimabile ne stava maravigliata;
e non una volta, ma mille con istanzia
grandissima pregandomi, che ’l chiuso cuore
le palesassi, e ’l nome di colei, che di ciò
mi era cagione, le facessi chiaro. Io, che del