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i forzati. 215


di cresta in cresta, di abisso in abisso. Poco dopo vidi passarmi dinanzi una barca montata da alcuni selvaggi, che la tempesta trascinava nella sua furiosa corsa. Rapido come il lampo mi aggrappai ai bordi, sentii due braccia che mi aiutavano e caddi svenuto. Quando rinvenni mi trovai sulle spiagge di quest’isola. Alcuni selvaggi che tornavano dalle isole di Tonga mi avevano raccolto, e invece di mettermi allo spiedo o nella pentola colla salsa verde, mi nominarono re del loro villaggio! Mi avevano scambiato per una divinità marina o per un uomo di grande valore? Io ancora lo ignoro; so però che qui tutti mi adorano, che ogni mio desiderio per loro è un comando, e che a un mio cenno sfiderebbero senza esitare anche le fiamme del vulcano.

— Ma contate di rimanere re di quest’isola? — chiese il pilota. — La carica è buona, specialmente se vi trattano bene e vi ingrassano, ma avrei paura di venir mangiato.

— Non ho nessuna voglia di finire qui la mia vita, Asthor — disse il tenente ridendo. — Fra i miei sudditi conto degli abili carpentieri, i quali ci aiuteranno a costruire un grande canotto coi rottami dello sconquassato veliero, e quando avremo terminate le nostre faccende, spiegheremo le vele per l’Australia. —

In quel momento si presentò un selvaggio, dicendo:

— Paowang è giunto!

— È l’uomo che mandai alla scoperta, — disse Collin. — Che entri! —

Il selvaggio che attendeva di venir chiamato, si fece innanzi. Era un bell’uomo, di statura alta, di lineamenti energici, e con lo sguardo fiero. Pareva affannato per una lunga corsa, e per non perdere tempo teneva ancora indosso le sue armi, consistenti in una pesante mazza di legno adorna di ciuffi di peli di cane, in una lancia con la punta d’osso e in un arco con una dozzina di frecce.