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202 capitolo ventesimosecondo.


L’isolano si avanzò, senza manifestare alcuna sorpresa, verso l’accampamento e andò a strofinare il suo naso con quello del capitano Hill; poi, preso da un vivo terrore, fece due salti indietro guardando la gran nave mezzo coricata sulle sabbie e impugnando la scure di pietra come per difendersi.

Senza dubbio egli la scambiava per qualche mostro gigantesco e aveva paura di venire assalito e mangiato; ma poi si rassicurò, e sedette dinanzi al fuoco.

Fulton ritirò l’arrosto che mandava un profumo delizioso e le magnagne che erano state poste sotto la cenere, poi con due colpi di scure spaccò il guscio mettendo allo scoperto una polpa biancastra che prometteva di essere eccellente.

Il selvaggio fece molto onore al pasto, gradì assai i biscotti e sorseggiò con avidità una tazza colma di vino. Tutti poi fecero un bel vuoto nella provvista delle frutta, magnificando la delicatezza dei banani, la fragranza delle pere e la dolcezza delle noci di cocco e delle mandorle.

Accese le pipe e sdraiatisi sulle fresche erbette, all’ombra dei grandi alberi, il capitano si provò a interrogare il selvaggio, in lingua tonghese, che conosceva abbastanza bene, e cominciò con domandargli:

— Come ti chiami?

— Koturè — rispose subito l’isolano nella stessa lingua.

— È lontano il tuo villaggio?

— Lassù — rispose l’isolano, indicando la cima di una montagna coperta di fitti boschi.

— Vorresti condurci?

— Sì! Sì!...

— Ci presenterai al tuo re?...