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156 | capitolo decimosettimo. |
poggio, precipita nella stiva trascinando seco le pompe, l’alberatura, l’attrezzatura, il castello di prua, il cassero, e anche gli uomini, se non sono pronti ad abbandonare la fumante carcassa.
Allora nulla più arresta la distruzione: l’implacabile fiamma, divorato il grande ammasso di legname e ringagliardita da quel nuovo elemento, intacca i fianchi, incenerisce i corbetti che formano l’ossatura; apre delle immense ferite. Il mare entrerà da quelle aperture fra l’acqua irrompente e il fuoco, si combatterà l’ultima battaglia, le vampe si spegneranno bruscamente sotto l’invasione del nuovo e più potente elemento, ma la nave sarà tuttavia perduta.
Il fumante rottame non galleggerà più mai su l’azzurra superficie del mare, e affogato da quel nuovo nemico scenderà nei profondi abissi.
Tale doveva essere la sorte della Nuova Georgia, se il caso non le veniva in aiuto. Ormai il fuoco si era impadronito di quel corpo galleggiante; non poteva essere che questione di poche ore.
L’equipaggio, sfinito dal faticoso manovrare delle pompe, spaventato dall’irrompere improvviso di quella immensa cortina di fuoco, istupidito dal fumo che lo avvolgeva acciecandolo e soffocandolo, non ne poteva più. E per colmo di disgrazia si faceva strada il timore che il ponte, le cui tavole erano già diventate tanto ardenti da bruciare i piedi, fosse lì lì per crollare. Non restavano al loro posto che a gran pena, più per paura delle pistole del capitano e di Asthor, che per dovere o per speranza, poichè ormai avevano perduto ogni illusione sulla possibilità di salvare la nave.
Quantunque tutti i getti delle pompe fossero stati diretti contro la camera comune, la grande fiamma ingigantiva a vista d’occhio, illuminando come in pieno giorno l’oceano circostante. Si contorceva come se fosse irritata nel trovarsi imprigionata fra le pareti della