Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
cap. xxi. — l'insurrezione | 327 |
Alcuni soldati cadono. I candiani hanno cominciato il fuoco per impedire a quelle due colonne di giungere al palazzo reale ed i partigiani del marajah li aiutano meglio che possono.
— Rideremo! — esclama Jean Baret. — Giacchè non volete sgombrare la via al nuovo marajah, l’apriremo colla forza.
— Avanti voi altri, tutti dietro a me!... Preparatevi a caricare.
I trecento soldati, che hanno abbracciato la causa degli insorti, alzano le carabine e si ode uno scricchiolio precipitoso: i cani sono montati.
— Fuoco! — urla il francese.
Una fucilata irregolare si ode da tutte le parti, abbasso ed in alto.
I partigiani del marajah, pochi senza dubbio, ma non meno risoluti dei candiani a difendere il loro signore, sparano sulla truppa, scaricando le pistolone a pietra, i vecchi tromboni importati duecent’anni prima dai portoghesi, loro primi dominatori, e dei moschettoni a miccia penosamente sorretti da tre uomini.
Lo spreco che fanno di polvere e di proiettili è enorme, eppure è maggiore il baccano che non il danno.
I cingalesi mutano ben presto le cose. La loro colonna si apre in due e dalle canne delle carabine indiane sorge una lunga striscia di fuoco e di fumo. Acute detonazioni scuotono le case che fiancheggiano la via. I cingalesi sparano dentro le finestre, sulle terrazze, sui tetti, dappertutto ove vedono comparire un combattente.