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cap. xv. — la fuga di jean baret 223

sfrenata però, non volendo giungere al lago interamente esausto.

La traversata di quell’ultimo tratto di foresta la compì felicemente, quantunque avesse veduto passare una tigre la quale, per sua buona fortuna, non l’aveva nemmeno guardato.

Alle tre del mattino Jean Baret si fermava sulla riva del lago e precisamente quasi di fronte alle tre isole.

Aveva appena dato uno sguardo, quando vide il Bangalore che stava in quel momento girando la terza isola, dirigendosi verso la palude.

— Che fortuna inaudita! — esclamò il francese, che non poteva quasi credere ai proprii occhi. — C’è qualcuno che mi protegge.

La nave passava a soli quattro o cinquecento metri dalla riva.

Jean Baret, credendo di non aver ormai più nulla da temere, colle mani fece portavoce e gridò:

— A terra! Sono il cacciatore francese, l’amico di Amali!

Sulla nave vide delle forme umane agitarsi, udì delle voci, quindi vide le vele cambiar di posto.

— Mi hanno riconosciuto — disse. — Ormai sono salvo.

No; aveva pronunciata quella parola troppo presto, perchè nell’istesso momento udì una voce gridare in cingalese:

— Eccolo! L’abbiamo raggiunto!

Jean Baret si era voltato col pugnale in mano.

Quattro uomini erano usciti dalla foresta e gli