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erano in baldoria. Si udivano ridere, discutere, cantare in mezzo al cozzar dei bicchieri.

Al di fuori una trentina di musicisti percuotevano i tam-tam ed i tamburi, accrescendo il baccano.

Jean Baret fece il giro della tenda, sostando presso i musicisti e presso i fuochi, intorno ai quali danzavano servi e soldati; poi mosse verso la piccola tenda occupata da Maduri, che era guardata da otto guerrieri. Finalmente s’accostò agli elefanti che stavano sdraiati gli uni presso gli altri, sopra un ammasso di foglie di banano.

Stanchi dalla marcia fatta al mattino nella jungla, dormivano russando fragorosamente.

— Tenete a bada i due guardiani, — disse il francese a Durga ed al capitano. — Mi sbrigherò presto.

Mentre i suoi due compagni si mettevano a chiaccherare coi mahuts, interrogandoli sull’età degli elefanti e sui loro caratteri, il francese si era levato da una tasca interna una piccola fiala di cristallo, che conteneva un liquido rossastro ed una lancetta scannellata, sottilissima, colla punta assai acuta.

Dopo essersi assicurato che nessuno faceva attenzione a lui, s’appressò all’elefante più grosso e, fingendo di accarezzargli la proboscide, lo punse leggermente.

Il colosso scosse gli orecchi, come se avesse voluto scacciare una mosca importuna e continuò a russare.

Jean Baret, sebbene impressionato ed inquieto,