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cap. xii. — le caccie del marajah 173

Jafnapatam avrebbe ancora il suo principe. Se avessi dovuto contare solamente sul valore de miei ministri e dei miei cortigiani, la tigre si sarebbe pasciuta delle mie carni. A suo tempo ognuno avrà il suo castigo.

— Altezza — rispose il francese, mentre i ministri ed i cortigiani si guardavano l’un l’altro spaventati — se avessero fatto fuoco avrebbero avuto novanta probabilità su cento di colpire anche voi. I loro elefanti si agitavano orribilmente e non permettevano di sparare con sicurezza.

— I miei capitani d’armi giudicheranno la loro condotta — disse il marajah con voce minacciosa. — Signore, come posso ricompensarvi d’avermi salvato? Chiedete quello che desiderate ed io vi accontenterò.

Jean Baret fissò il suo sguardo su Maduri, il quale, dal canto suo, lo guardava con curiosità.

— Altezza — disse ad un tratto — desidererei una cosa sola.

— Parlate e vi sarà concessa.

— Questo bellissimo fanciullo — disse Jean Baret, audacemente.

Il marajah lo guardò con profondo stupore.

— Che cosa volete farne?

— È uno dei più bei tipi della razza cingalese e vorrei farne un mio paggio.

— Quale strano capriccio! Se volete dei ragazzi ve ne posso cedere cento, non però questo. Mi è troppo caro e molto necessario. Chiedete altro.

Il francese si morse le labbra.

— Quando V. A. non può concedermelo, mi ac-