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cap. xii. — le caccie del marajah | 167 |
l’altra parte ci sono duecentocinquanta uomini — rispose Binda.
— Oh, non si ritireranno senza darci battaglia, siatene certo. Sono bestie coraggiose che non temono nè uomini, nè elefanti. Attenti! Eccone una che torna verso di noi!
Nell’istesso momento si era udito un terribile ruggito, paragonabile a nessun altro grido. Quell’urlo aveva prodotto su tutti, meno che sul francese, una indicibile sensazione. Anche gli elefanti avevano cominciato a fremere e a sbuffare in modo inquietante, mentre colle loro trombe battevano l’aria.
Le urla continuavano e non risuonavano da una sola parte. Evidentemente vi era più d’un nemico da combattere.
— Non perdete la calma — disse Jean Baret ai suoi due compagni — e sopratutto non fate fuoco che a colpo sicuro.
— Le avete vedute? — chiese il capitano.
— Non ancora; vi posso dire che sono però vicine. Guardate come le canne si agitano in più luoghi. Quelle fiere stanno preparando un assalto in diversi punti.
— State attento al fanciullo.
— Non lo perdo di vista e vi prometto che nessuna tigre giungerà fino a lui.
Ad un tratto si vide sorgere fra le canne, simile ad un razzo, una tigre di grossezza enorme. Ad ogni balzo che faceva, superava uno spazio di otto o dieci metri. Spariva nei giungli, e ne usciva ancora per rientrarvi quasi subito e così rapida-