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cap. x. — una caccia alle tigri 145


Durga la scambiava sempre per qualche tigre, mentre invece Jean Baret asseriva che si trattava ora d’un cinghiale, ed ora d’un cervo, o d’un daino.

Finalmente la notte passò, senza che alcuna belva si fosse mostrata presso il fuoco. Le grida, i sibili, i rumori, a poco a poco cessarono ed il silenzio ritornò coll’alzarsi del sole.

— Ora possiamo dormire un paio d’ore — disse il francese — di giorno le fiere non lasciano i loro covi. Saprai poi ritrovare la via?

— Sì, orientandomi col sole, io vi condurrò a Jafnapatam.

— Saremo vicini o lontani?

— Poche miglia ci devono separare.

— Troveremo il capitano della guardia?

— Non lascia mai la corte.

— Abita nel palazzo del marajah? ciò mi seccherebbe.

— Sta in una casa di sua proprietà che è vicina a quella del principe — rispose Durga.

— Così potremo parlare più liberamente. Si potesse decidere il marajah a intraprendere qualche caccia verso la palude! Che bel tiro gli giuocherei! Buona notte, o meglio buon giorno, Durga; io chiudo gli occhi.

Il francese si rovesciò sul letto di foglie, e Durga, che cadeva pure dal sonno, non stette molto ad imitarlo.

Quando si svegliarono era mezzodì ed il sole lasciava cadere i suoi raggi ardentissimi perpendicolarmente. Il silenzio che regnava era profondo.