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cap. x. — una caccia alle tigri 137


«Nel mezzo sorgeva una vecchia pagoda in rovina, consacrata non ricordo a quale divinità, nella quale gl’indiani, sempre superstiziosi, asserivano che la tigre era penetrata per deporre le sue forme, e che invece di essa noi avremmo trovato la divinità pronta a divorarci tutti.

«Tale credenza era così radicata in quegli uomini, che nessuno aveva mai osato accostarsi a quell’edificio. A mezzogiorno nulla avevamo ancora scoperto. Le canne erano così alte che gli elefanti vi scomparivano dentro e che le cime sferzavano i cacciatori appollaiati sulle casse.

«I battitori si avanzavano in due ranghi formando un semicerchio, preceduti dai cani, animali bruttissimi, ma d’una bravura meravigliosa e che non temono di assalire le fiere.»

— Li conosco — disse Durga.

— A quei cani il mio amico aveva aggiunto due stupendi bull-dogs di razza pura, di statura alta, che, a suo dire, dovevano prendere la tigre per le orecchie e tenerla ferma come si trattasse d’un toro.

«Era trascorsa un’altra ora, quando un grido lanciato da uno dei battitori, giunse fino a noi. Distinguemmo la parola vento, dal che concludemmo che la tigre, avvertita dai nostri movimenti, doveva aver preso il largo per cercare di sfuggirci.

«Non poteva andare molto lontano. La jungla stava per finire, quindi da un momento all’altro doveva mostrarsi.

«Ed infatti poco dopo ci apparve. Non dimenticherò mai quel momento!