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cap. ix. — i cacciatori d’elefanti 131


Gli elefanti tornati a cercare il compagno erano solamente tre, tutti grandissimi, con superbi denti e trombe lunghissime.

Non vedendo quello che cercavano, si tenevano nascosti fra le piante, aspirando l’aria colle proboscidi alzate per accertarsi se vi erano ancora nemici e se si sentiva l’odor della polvere.

Non vedendo nessuno e non udendo rumore, si decisero finalmente ad avanzarsi fra le erbe, agitando le trombe. Fiutata la presenza del cacciatore, arrestarono tosto la marcia e, alzando la testa, guardarono fra le piante per scoprirlo.

La situazione del francese era diventata improvvisamente pericolosissima, perchè dal posto che occupava non poteva trovare il modo di abbattere d’un sol colpo uno di quei colossi. D’altra parte se indugiava potevano precipitarsi d’un tratto su di lui e schiacciarlo coi loro larghi piedi.

— Durga aveva ragione — disse. — Sarebbe stato meglio che li avessi lasciati in pace. Vediamo se posso spaventarli.

Si alzò sulle ginocchia e, scostate le erbe, mirò il più vicino alla tempia.

Udendo lo sparo, i due rimasti incolumi fuggirono. Il terzo invece, che aveva ricevuto la palla nel cranio, si precipitò fra le erbe, cercando il feritore.

Guai se Jean Baret avesse perduto il suo sangue freddo e si fosse dato alla fuga. Sarebbe stato infallibilmente perduto.

Come però abbiamo detto, il francese non era alle sue prime caccie.