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capitolo xiii — una marcia disastrosa 231


Sapendo che il grosso cane di Terranuova non latrava se non aveva un motivo, Tyndhall ed i suoi marinai afferrarono precipitosamente le armi e si slanciarono lungo la sponda del fiord, la quale in quel luogo descriveva un brusco angolo.

Girato uno scoglio di dimensioni gigantesche, trovarono il cane che abbaiava dinanzi ad una massa di neve e di ghiaccio di forma circolare, colla vôlta alta quindici o sedici piedi e traforata regolarmente in varie parti.

– Ma quella è una capanna esquimese, disse il mastro, con sorpresa.

– È vero, dissero i marinai.

– Che sia abitata?...

– Non vedo alcuna traccia di piedi nei dintorni, mastro, osservò Charchot.

– Cerchiamo l’entrata.

Si misero a levare la neve che si era accumulata attorno alle pareti e trovarono finalmente una specie di galleria, ma così bassa, che per inoltrarsi bisognava strisciare come le foche.

Il mastro vi si cacciò dentro seguìto dai marinai e si trovò tosto nell’interno della capanna. Vide subito che non vi era alcun essere umano, ma tutto indicava che era stata abitata e abbandonata di recente.

Infatti vi erano alcune pelli di foca ancora sanguinanti, del grasso che pareva fosse stato fuso da pochi giorni, una lampada di pietra, chiamata dagli esquimesi kotluk, che serve per cucinare tutte le vivande, ed in un angolo, col fondo rovesciato, si trovava un kayak, battello leggerissimo, lungo diciotto piedi, largo due al centro, collo scheletro formato di ossa di balena e ricoperto di pelle di foca o di tricheco cucita con somma cura.