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La fuga 279

annunziata dal capo, promessa che era stata creduta ciecamente come vera.

Alonzo aveva preso posto su una pelle di guanaco, nel centro della stuoia, con a fianco lo stregone ed il cacciatore di guanachi, i due principali cooperatori del tradimento e della vittoria finale. In attesa degli arrosti umani, quei ributtanti convitati avevano cominciato a divorare immensi cumuli di pesci, di ricci di mare e di ostriche, innaffiando quei cibi con abbondanti libazioni di acquavite.

Tutti i barili trovati sulla Quiqua erano stati allineati dinanzi ai banchettanti e ognuno spillava a suo piacimento, servendosi per tazze dei gusci di conchiglie.

Alonzo, per stornare ogni sospetto, fingeva di mostrarsi molto allegro e scherzava collo stregone e col cacciatore di guanachi, quantunque provasse delle nausee invincibili, sentendo l’odore di quelle povere carni che arrostivano crepitando e gli tremasse il cuore all’idea di dover assistere, fino alla fine, a quell’atroce pranzo.

Si consolava solo vedendo che i selvaggi bevevano smodatamente, sperando che si ubbriacassero prima che i cuochi portassero tutti quei cadaveri.

Aveva anzi, appunto perciò, dato ordine ai cuochi di ritardare la cucinatura e di serbare quegli arrosti come ultimo piatto. E per farli resistere meglio dinanzi a quelle pire gigantesche, aveva fatto distribuire anche a loro due barili di acquavite, sicuro invece che anche essi avrebbero finito per cadere ubbriachi.

Quelle abbondanti libazioni producevano il loro effetto. I selvaggi non avevano ancora divorato la metà dei pesci, dei ricci e delle ostriche, che già penavano a mantenersi ritti. Non abituati a quei liquori s’intorpidivano rapidamente e parecchi cadevano come fulminati, colla bocca ancora piena di cibi che non avevano avuto il tempo d’inghiottire.