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Prigionieri dei selvaggi 273


Mariquita provò un fremito.

Alonzo si diresse verso la porta e battè su una specie di tamburo costruito con un pezzo di tronco d’albero vuoto e ricoperto d’una pelle di guanaco ben tesa. A quel rullo un uomo entrò: era l’jacmusa.

— Il mio capo mi ha chiamato? — chiese lo stregone, affettando un rispetto esagerato.

— È stata distrutta la nave? — chiese Alonzo.

— Sì, capo.

— Avete portato qui tutto ciò che conteneva?

— I portatori sono giunti in questo momento.

— Vi sono dei barili?

— Una ventina.

— Essi contengono di quell’acqua di fuoco che tanto piace a voi e la berrete dopo il banchetto di carne bianca, che non farete prima di questa sera. Intendo che vi prendano parte i soli guerrieri noti pel loro valore.

— E gli altri?

— Andranno a guadagnarsene un altro fra qualche giorno. Io ho saputo da questa donna che fra poco un’altra nave deve approdare al nord della baia e quelli che non prenderanno parte al banchetto andranno ad aspettarla ed assalirla.

— Un’altra nave! — esclamò il selvaggio.

— Carica d’acqua di fuoco e con molti uomini bianchi.

— Ne risparmierai anche di quelli?

— No, ve li abbandono tutti, non essendo miei amici.

— Tu sei un bravo capo, — disse l’antropofago. — I nostri guerrieri assaliranno anche quella nave e la prenderanno.

— Chi prenderà parte al banchetto?

— Cento soli, i più valenti che si sono distinti nel combattimento. Gli altri partiranno oggi stesso pel nord della baia, potendo darsi che la nave giunga questa sera.