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268 | Capitolo XIX. |
tureche bene o male servivano da finestre. Il cacciatore di guanachi tagliò con una conchiglia affilata le corde che legavano Mariquita, quindi la invitò ad alzarsi, dicendole:
— Entrate: è la dimora del capo. —
La porta era aperta. La giovane, assai sorpresa di trovarsi ancora viva e per di più libera, varcò la soglia e si trovò in una stanza ampia, arredata con un lusso affatto sconosciuto ai fuegini.
Le pareti erano tutte coperte di pelli di guanaco che nascondevano le fessure, e il pavimento di pelli di leone marino. Vi erano poi degli sgabelli di legno, una tavola che pareva costruita con avanzi di qualche nave, quindi dei trofei d’armi disposti con un gusto che rivelava la mano d’un uomo incivilito. Mariquita non si era ancora rimessa dal suo stupore, quando vide entrare un uomo che subito non riconobbe, quantunque si fosse accorta d’aver dinanzi, non già un selvaggio immondo, bensì un uomo di razza bianca.
Era un giovine di trent’anni, di forme snelle ed eleganti, con una lunga barba bionda, i capelli pure lunghi, d’egual colore, che gli cadevano sulle spalle, e gli occhi azzurri e la pelle bianchissima. Indossava una casacca di pelle di guanaco ed un paio di calzoni di panno oscuro che dovevano aver appartenuto a qualche marinaio, e nascondeva le gambe ed i piedi entro certi stivali di pelle di leone marino col pelo al di fuori e che non dovevano essere opera di nessun calzolaio, nè americano nè europeo.
Sul capo portava un diadema di conchiglie e di penne d’alcione e al collo numerose file di collane. Sulle gote aveva dei tatuaggi, azzurri e rossi. Quell’uomo rimase un momento immobile, poi aprì le braccia e si precipitò verso la giovane, gridando:
— Non mi riconosci più, Mariquita? —
L’araucana aveva anch’essa mandato un grido.