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Lo stregone 197


Quando furono presso la nave, si rivolse al più alto dei quattro, che era anche il più anziano e che indossava un mantello di pelle di guanaco più ampio degli altri, e scambiò con lui alcune parole.

Era un invito a salire a bordo con promessa d’una larga distribuzione di viveri. Il fuegino parve dapprima poco disposto ad obbedire, poi, dopo un breve consiglio coi compagni, si decise a salire la scala, portando con sè la sua fiocina.

Puzzava come una vera volpe e tramandava anche un orribile fetore d’olio di pesce rancido, avendo l’abitudine quegli isolani di ungersi, forse perchè credono di sentire meno, così unti, i morsi del freddissimo vento del sud.

Quell’uomo non era un vero guerriero, bensì un jacmusa, specie di medico e di stregone ad un tempo, carica poco apprezzata da quei selvaggi, i quali anzi sovente li maltrattano quando non riescono a placare i furori di Yacy-ena, una specie di spirito malvagio che si raffigurano nero e grandissimo e che ha la facoltà di scatenare i venti e le tempeste. Piotre lo fece sedere su una cassa e gli fece portare un cesto contenente del lardo, della carne salata e dei biscotti avariati, mentre papà Pardoe gettava altri viveri agli uomini rimasti nella scialuppa.

Lo stregone che forse mai si era trovato dinanzi a tanta abbondanza, e che doveva aver sofferto dei lunghi digiuni, a giudicarlo dalla magrezza spaventosa del suo corpo, si era gettato sulla cesta coll’avidità d’una belva feroce, divorando affannosamente. La sua bocca era già piena da scoppiare, ma egli si sforzava ancora a cacciarvi dentro pezzi di lardo e di carne, come se avesse avuto paura di non avere tempo sufficiente per finir tutto.

Bastarono dieci minuti per far sparire ogni cosa, sei o sette chilogrammi di commestibili. Il suo ventre era diventato così gonfio che pareva un otre pronto a scoppiare.