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194 | Capitolo XIV. |
notti nel tronco d’un albero, come fanno tutti i selvaggi dell’oceano Pacifico e anche dell’Africa, adoperano, al pari delle pelli-rosse del Canadà e dei Grandi Laghi dell’America inglese, la scorza d’una specie di betulla che staccano tutta intera con molta abilità e che mantengono aperta mediante alcune tavole. Alle due estremità aggiungono due punte di legno, che non mancano talvolta d’una certa eleganza e turano poi accuratamente le fessure con dell’argilla mescolata ad una sostanza viscida che è assolutamente insolubile.
Si servono di corte pagaie per remare e nel centro portano sempre dei grossi ciottoli su uno strato di terra per tenervi acceso il fuoco, avendo sempre bisogno di riscaldarsi con quel clima tanto freddo.
Con quelle barchette percorrono i fiumi, i canali interni e anche le baie; non osano invece arrischiarsi al largo, sapendo bene che non potrebbero resistere agli urti di quel mare sempre irrequieto.
Anche quando vogliono portarsi da un luogo all’altro, sia pure costiero, piuttosto di affrontare le onde preferiscono smontare i loro canotti e poi ricostruirli ed incatramarli di nuovo.
Il canotto che s’avanzava verso la Quiqua era montato da quattro indigeni di statura altissima e d’una bruttezza assolutamente spaventosa. Avevano la pelle oscura, color della corteccia delle castagne, la fronte bassa e stretta, gli zigomi assai sporgenti, gli occhi piccoli, mentre la bocca era larghissima con labbra assai carnose, il naso lungo, colle narici aperte, e la capigliatura lunga, ruvida, incolta e grondante d’olio di foca. Quantunque di statura così elevata avevano le spalle incurvate, il petto poco ampio e che mostrava le costole e le membra magrissime, che facevano l’effetto di bastoni coperti di cuoio.
Sebbene il vento fosse freddissimo e la neve altissima