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176 | Capitolo XIII. |
Il mare vi penetra dovunque per canali innumerevoli, ma i passaggi sono così angusti, le correnti così violente, i venti così impetuosi, ed i due oceani vi cozzano contro con tanta ira, che nessun navigante oserebbe inoltrarvisi, certo di correre incontro ad una morte sicura. Eppure su quelle montagne brulle, percosse incessantemente dagli uragani, si nascondono ricchezze considerevoli che potrebbero forse rivaleggiare con quelle favolose della gelida Alaska.
L’oro abbonda dovunque in forma di fogliuzze e di pepite, di cui alcune pesanti perfino cinquanta grammi; ed in polvere se ne trova in quantità nelle sabbie dei fiumi e nelle borre arenose dei torrenti, ma chi oserebbe andarlo a raccogliere?
Il paese è sterile, freddo, abitato da tribù bellicose, dedite, fino a pochi anni sono, all’antropofagia e quasi privo di selvaggina. Non vi sono che uccelli, rari guanachi e poche foche, ormai quasi interamente distrutte dagli abitanti che sono sempre alle prese colla fame.
Tre razze abitano quella terra, assai simili fra di loro: l’indio Honas, l’indio Grande e l’indio del Canale. Razze miserabili che conducono una esistenza quanto mai difficile, che vivono al pari delle belve dentro misere capanne composte di poche frasche, sicchè non servono di riparo, che tremano di freddo essendo seminudi e che si odiano cordialmente e sono sempre in guerra fra di loro.
Sono i più poveri, i più disgraziati, i più brutti ed i più luridi esseri della famiglia umana, più bestie che uomini, che reggono appena nel confronto coi selvaggi dell’Australia, i quali pur vengono considerati come gli ultimi cretini della razza che popola il mondo.
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La Quiqua, superato il capo dell’Espirito Santo, aveva messo la prora al sud-est tenendosi abbastanza lontana dalle