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208 Capitolo settimo


La Terra di Francesco Giuseppe non doveva essere molto lontana. Quantunque il cielo si fosse nuovamente coperto, impedendo di rilevare esattamente la latitudine e la longitudine, tutti erano convinti che fosse vicina.

I ghiacci aumentavano. Parecchi ice-bergs navigavano lentamente verso ponente, vomitati certamente dai ghiacciai della Terra di Francesco Giuseppe.

Erano per lo più di forma piramidale, però ve n’erano alcuni che sembravano immense colonne tozze, sormontate da strani capitelli.

Quei giganti delle terre artiche sfilavano silenziosamente, sordi alle carezze delle onde, seguìti o preceduti da lunghe file di hummoks, di streams e di palks.

Di quando in quando qualcuno, perduto l’equilibrio, si capovolgeva con immenso fracasso, sollevando ondate mostruose. S’immergeva per alcuni istanti, poi una nuova punta, diversa dalla prima, usciva impetuosamente fra la spuma e si rizzava superbamente verso il cielo, riprendendo la sua marcia.

Innumerevoli uccelli marini volteggiavano al di sopra di quei giganti, inseguendosi, divertendosi, poi si calavano in mezzo alle onde dalle quali uscivano stringendo nel becco qualche pesciolino o qualche crostaceo.

– Trovano cibo abbondante, – disse Andresen, il quale osservava attentamente il mare. – Navighiamo fra la zuppa delle balene.

– Da cosa lo arguisci? – chiese Stökken.

– Non vedete quelle macchie brune che spiccano sulla tinta verde cupa dell’acqua?

– Infatti le vedo.

– Quelle macchie sono formate da miriadi di granchiolini in forma di gamberetti, del diametro di due millimetri, chiamati boete dai balenieri e molto ricercati dai cetacei. Non sarei sorpreso se qualche balena emergesse improvvisamente.

– Sono vasti quei banchi di granchiolini?

– Talvolta occupano delle estensioni immense. Ne ho veduti di quelli che misuravano quindici leghe su una larghezza di una lega ed uno spessore di quattro o cinque metri.

– Sono le praterie delle balene dunque.