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Il re di Porto Novo 47

acre. — Sono venuto perchè V. M. mi aiuti a liberare mio fratello.

— Ed in qual modo?

— Mandando dei messi a Geletè, minacciandolo di rappresaglie in caso di rifiuto. A V. M. spetta vegliare sugli stranieri che risiedono nel vostro regno.

— Ma io non ho alcuna influenza su Geletè.

— Siete parenti, poichè entrambi discendete dai principi d’Allada fondatori del regno di Dahomey.

— Geletè non mi ascolterebbe.

— Lo si minaccia.

— Sono un povero re incapace di far fronte al Dahomey, — disse Tofa, sospirando.

— Adunque non posso contare sul vostro aiuto?... — disse Alfredo, la cui collera cresceva dinanzi alla tranquilla indifferenza del re.

— Ohimè!... Nulla posso fare, fuorchè cercare d’indennizzarti del danno sofferto.

— Non so cosa farne del vostro indennizzo. È mio fratello che voglio salvare, mi comprendete?...

— Geletè è potente.

— E voi siete pauroso.

— Il mio palco è pieno di crani di nemici da me uccisi.

— Ma Geletè vi fa tremare.

— Sono un povero re, — piagnucolò Tofa.

— Ebbene, andrò io nel Dahomey!...

— E Geletè ti farà uccidere come i portoghesi.

— Concedetemi almeno una scorta.

— Nessuno dei miei soldati ti seguirebbe.

— Sì, a Porto Novo non vi sono che dei poltroni — disse Alfredo con amarezza. — Vieni, Antao, abbiamo perduto del tempo inutilmente. —

Il re vedendo che il cacciatore stava per lasciarlo senza degnarsi di rivolgergli la parola, forse toccato dal dolore e dalla collera di lui, si era prontamente alzato, dicendo:

— Ma aspetta adunque. Il Dahomey non fugge.

— Cosa volete dire? — chiese Alfredo, che era già giunto presso la porta.

— Udiamo: cosa vuoi fare nel Dahomey?

— Eh, per mille folgori!... Ve l’ho già detto che voglio salvare mio fratello.