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226 | Capitolo trentunesimo |
di soldati del re incaricati di mantenere l’ordine nei quartieri più lontani della città o di eseguire qualche segreta missione.
Passarono dinanzi a parecchi falò, senza rispondere all’invito dei bevitori e delle danzatrici di arrestarsi per vuotare un bicchierino e scomparvero fra un dedalo di viuzze oscure e assolutamente deserte, arrestandosi in una piccola piazza coperta da sette od otto gigantesche palme.
— Ci siamo, — aveva detto il padre di Urada, arrestandosi in un luogo dove maggiore era l’oscurità.
— Dove si trova?... — chiese Alfredo, con una viva emozione.
— Dietro a quella muraglia, — rispose il dahomeno, indicando un’alta e massiccia parete che univa le grandi capanne occupanti i due angoli della piazza.
— Sei certo di non ingannarti?
— Oh!... Certissimo.
— I sacerdoti veglieranno però nella stanza del mio Bruno?...
— Stanno gozzovigliando nella capanna centrale che contiene i feticci più pregiati ed a quest’ora saranno tutti ubriachi, avendo io veduto introdurre nel recinto due casse piene di bottiglie di ginepro mandate dal re.
— Sì, — disse Gamani, che aveva osservato attentamente la muraglia. — Il padroncino deve trovarsi dietro a questa cinta, nella piccola capanna sacra.
— Allora andiamo a torcere il collo ai sacerdoti ed a liberare il ragazzo, — disse Antao. — Mi vendicherò su quelle canaglie delle terribili emozioni fattemi provare quest’oggi dal gran macellaio Geletè I.
— Sì, affrettiamoci, — rispose Alfredo. — Finchè dura l’orgia della popolazione non abbiamo da temere di venire importunati, ma è meglio sbrigarsi presto. Hai la fune, Gamani?...
— Sì, padrone.
— Sei capace di giungere sulla muraglia?...
— Sì, purchè abbia un punto d’appoggio qualunque.
— L’avrai. —
Si appoggiò contro la parete piantandosi per bene sulle gambe e inarcando la robusta schiena, poi disse ad Antao:
— Sali che io non cederò. —
Il portoghese, con un solo slancio, si trovò sulle spalle dell’amico.
— Ci sono, — disse.