Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
356 | la città dell'oro |
— Certamente, — rispose Velasco. — Verranno a sacrificare l’agnello nero per interrogarne le viscere.
Il vocìo intanto continuava. Ad un tratto però cessò del tutto, ma poco dopo si udirono echeggiare grida acute, mentre i flauti suonavano furiosamente e i tamburelli precipitavano le battute.
— Il Sole è comparso, — disse il dottore, che porgeva attento orecchio a quei diversi fragori.
Passarono ancora alcuni minuti di ansietà per don Raffaele e per Alonzo, i quali non si sentivano del tutto tranquilli, poi le porte del tempio s’aprirono e comparvero otto indiani adorni di penne variopinte e di sottanini ricamati d’oro, portando un trono d’oro sul quale sedeva un altro indiano recante in fronte la fascia rossa, distintivo dei discendenti dei figli del Sole, e coperto d’una specie di manto intessuto con pagliuzze d’oro. Aveva ai piedi dei calzari di cotone rosso e sul petto portava, appesa ad una catenella, l’immagine del Sole. Quell’uomo poteva avere trent’anni. Era alto di statura, aveva la fronte spaziosa, i lineamenti molto più regolari dei suoi compatrioti, gli sguardi intelligenti e la sua pelle era leggermente abbronzata, ma con dei riflessi ramigni.
— Yopi forse? — chiese don Raffaele, guardando fisso l’indiano.