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344 la città dell'oro

— Non disperiamo, don Raffaele.

— Zitti! — disse Alonzo.

Aveva udito delle voci presso la porta. Poco dopo le sbarre vennero levate ed entrarono due indiani, portando due grandi ceste di foglie intrecciate, contenenti gran numero di quelle mezze zucche seccate chiamate cui, ricolme di varie specie di radici, di frutta e di liquidi.

Deposero i canestri a terra, fecero un inchino dinanzi agli uomini bianchi piegando un ginocchio, poi se ne andarono senza aver pronunciata una sola parola.

— La colazione viene in buon punto, — disse Alonzo. — Il mio ventre è perfettamente vuoto.

— Vediamo cosa hanno recato, — disse il dottore, gettando uno sguardo sui canestri. — Diamine!... Un vero pasto d’antichi Peruviani!... Questi indiani, a quanto sembra, non solo hanno conservata la religione primitiva degli Inchi, ma anche le abitudini di quei figli del Sole. Ecco qui una minestra di quinea, molto in uso nel Perù tre secoli or sono.

— Cos’è questa quinea? — chiese don Raffaele.

— Una specie di miglio che produce il chenopodio, una pianta le cui foglie si mangiavano avidamente da quei popoli e che si dice fossero tenere e di buon sapore.