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30 | Capitolo Terzo. |
Muti pel terrore, guardavano la caravella senza osare più a toccare i remi. Quale bestia doveva essere quella che lanciava fuoco e fiamme e che ad una così grande distanza ammazzava o mutilava gli uomini?
Nondimeno lo stupore non durò molto in quei selvaggi abituati a vivere in continua guerra fra tribù e tribù. L’avidità fu più forte della paura e ripresero ben presto i remi spingendo rapidamente innanzi le loro piroghe per giungere presto sotto la caravella.
Ormai avevano scorti i due naufraghi e contavano di vincerli facilmente e anche di mangiarseli presto.
— Signor Alvaro, — disse il mozzo. — Continuano ad avanzarsi egualmente. Il tuono non basta a fermarli e nemmeno le nostre palle.
— Vi è la mina pronta e vedrai come salteranno. Aspetta che giungano sotto la prora.
— E noi?
— Ci rifugeremo nel quadro. Lo scoppio non farà troppi guasti. Hai finito di caricare?
— Sì, signore.
— Mira la seconda piroga; io m’incarico della prima.
Due altri spari rimbombarono a breve tratto l’uno dall’altro e altri due indiani caddero sui loro banchi, uno morto sul colpo e l’altro ferito.
Urla acutissime risposero a quella seconda scarica, poi una voce tuonante s’alzò sola, gridando replicatamente:
— Caramurà!... Caramurà!... —
Era una maledizione scagliata contro i possessori del fuoco celeste o voleva significare qualche cosa d’altro? Alvaro non ebbe il tempo di cercarne la spiegazione.
Le quattro piroghe con un ultimo sforzo erano già giunte sotto la prora della caravella che era la parte più bassa e che meglio si prestava ad un abbordaggio.
Il signor di Correa si era impadronito d’un pezzo di scotta che aveva accesa ancora prima che cominciasse il combattimento e che bruciava sulla murata.
— Nel quadro, Garcia! — gridò.
— No, signore, — rispose il ragazzo con voce risoluta. — Vi difenderò giacchè il mio archibugio è già carico.
— Grazie, — rispose Alvaro, impugnando uno dei due spadoni.