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L’assalto dei Tupinambi. 321

L’indiano si era alzato scostando con infinite cautele i rami e le foglie che coprivano la canoa.

I due drappelli, preceduti da alcuni uomini che portavano dei rami resinosi accesi, stavano per scomparire fra le macchie.

— Eccoli lontani, — mormorò.

Prese una pagaia e tastò il fondo della savana.

— L’acqua è profonda assai, — disse. — Non sento le sabbie.

— Dimmi dunque che cosa vuoi fare? — chiese il marinaio un po’ impazientito.

— Vado a uccidere l’uomo che hanno lasciato a guardia delle canoe, — rispose l’indiano. — Un soffio nella gravatana e lo spaccio in un attimo.

— A quale scopo? Se l’uomo riesce a mandare un grido i suoi compagni accorreranno e li avremo tutti addosso.

— Non camminano sull’acqua.

— Non comprendo.

— Ucciso l’uomo affonderò le canoe. Come potranno inseguirci poi?

— Sei più furbo di loro, tu.

— Aspettami, uomo bianco.

— E gli jacarè? Credi che non ve ne siano qui?

— Rospo Enfiato non li teme, — disse l’indiano levandosi dalla cintola, un bastoncino lungo un piede ed aguzzo d’ambo le parti.

— È di pâo de fero, — aggiunse. — Sai a che cosa serve. —

Si calò silenziosamente in acqua tenendo fra i denti la gravatana, fece cenno a Diaz di non muoversi e si mise a nuotare lentamente tenendosi sotto i rami arcuati delle piante da febbre.

Manovrava così agilmente da non produrre il più lieve rumore. Pareva, anzichè nuotasse, che scivolasse sulle nere acque come un vero pesce.

Le quattro canoe, come abbiamo detto, si erano arrestate ad una sessantina di passi.

Sulla più vicina si trovava l’indiano incaricato di guardarle. Stava seduto sulla prora, accanto ad un lungo ramo resinoso infisso in una fessura del banco e s’appoggiava alla mazza da guerra.

Rospo Enfiato si era arrestato a quindici passi, fuori dal cerchio di luce proiettato dai rami resinosi.

Con una mano s’aggrappò alla radice d’un paletuviero, accostò la gravatana alla bocca, mirò per qualche istante con grande attenzione, poi si udì in aria un sibilo appena percettibile.