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296 | Capitolo Ventinovesimo. |
lampo però rompeva la profonda oscurità che regnava sull’aldèe e sopra le mensime foreste che la circondavano.
Alvaro che teneva la batteria dell’archibugio nascosta sotto la casacca onde la polvere dello scodellino non si bagnasse, ascoltava trattenendo il respiro.
Gli pareva di udire degli strani fruscii e perfino di sentire il tetto a tremare, come se degli uomini lo avessero già scalato.
Erano trascorse tre o quattro ore, quando udì a breve distanza un colpo secco come se un dardo o qualche cosa di simile si fosse piantato in una trave del tetto.
— Avete udito signore? — chiese Garcia che vegliava, facendo sforzi supremi per non lasciarsi vincere dal sonno.
— Sì, — rispose Alvaro.
— Devono averci lanciata addosso una freccia colla speranza di colpirci.
— Non certo colla gravatana, — rispose Alvaro. — Quelle cannucce non fanno rumore.
— Mi sembra di scorgere un’asta verso l’orlo del tetto.
— Andiamo a vedere, Garcia.
— Badate, signore. Potreste riceverne una nei fianchi e voi sapete che il vulrali non risparmia nessuno.
— Con questa oscurità non si può mirare. —
Si coricò sul ventre e si mise a strisciare verso il margine del tetto. I suoi occhi, abituati già alle tenebre, avevano scorta un’asta che non doveva essere una freccia comune.
La raggiunse e un lieve grido di stupore gli sfuggì.
Era una canna di bambù lunga quasi un metro, foggiata a freccia, che doveva essere stata lanciata da uno di quei grandi archi che aveva già veduto nelle mani di alcuni selvaggi ed a metà vi era attaccata una sottile corda che sembrava formata con tendini intrecciati.
Quella corda si prolungava fuori dell’orlo del tetto. Alvaro si provò a tirare e trovò della resistenza come se all’opposta estremità vi fosse appeso qualche oggetto.
— Che cosa sarà, — si chiese. — E perchè hanno lanciata questa freccia? —
Tirò a sè con tutte le forze e udì un urto contro la parete inferiore del carbet.
— Signore? — chiese Garcia che lo aveva raggiunto. — Che cosa issate?