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Assediati nel carbet dei prigionieri. 287

CAPITOLO XXIX.

Assediati nel carbet dei prigionieri.


Cominciava allora a diffondersi pel cielo un po’ di luce. L’aurora faceva la sua comparsa tingendo di rosso l’orizzonte orientale.

I selvaggi non avevano ancora rotto il circolo, anzi si erano seduti a terra, presso il carbet, e guardavano i due assediati appollaiati sul tetto della prigione.

Che cosa aspettavano per cominciare le ostilità? Eppure erano in numero sufficienti per tentare l’assalto della capanna.

Di quando in quando qualcuno si alzava e tendendo il pugno verso Alvaro, gridava a pieni polmoni:

Caramurà! Caramurà!

— Sì, sono l’Uomo di fuoco, — rispondeva Alvaro mostrando il fucile, — e sono pronto a fulminarvi.

Caramurà! Caramurà! — rispondevano allora in coro i selvaggi alzando minacciosamente le mazze e dimenando poscia le mascelle, come per far comprendere agli assediati che aspettavano la loro resa per poi mangiarli.

Nessuno però osava muoversi. Erano spaventati dal fucile che brillava sempre nelle mani dell’Uomo di fuoco.

Anzi, ogni volta che vedevano la canna puntarsi orizzontalmente, i meno coraggiosi si affrettavano a precipitarsi dentro i carbet dove le donne ed i fanciulli della tribù strillavano, come se quella terribile arma da fuoco avesse avuto la potenza di distruggere d’un colpo solo l’intero villaggio.

Qualche guerriero però, più temerario degli altri, lanciava talora qualche freccia, che di rado giungeva fino al tetto e che non poteva offendere efficacemente gli assediati. Fatto il colpo fuggiva disperatamente, temendo che l’Uomo di fuoco gli scagliasse dietro la folgore celeste e correva a rintanarsi nei carbets senza più osare mostrarsi.

Quell’assedio pacifico, cominciava però ad inquietare assai Alvaro, il quale avrebbe preferito un attacco violento per giudicare l’effetto che avrebbe prodotto l’archibugio su quegli uomini estremamente superstiziosi.