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230 | Capitolo Ventiquattresimo. |
Con un paio di calciate, bene appioppate, ne abbatté due, gli ultimi che non avevano avuto il tempo di scavarsi la tana.
— Che animali curiosi! — esclamò Alvaro, raccogliendoli. — Non ne ho mai veduti di simili! Saranno poi mangiabili? —
I tatù giacché erano veramente tali, sono in realtà dei rosicchianti singolarissimi, tanto per le loro abitudini quanto per la loro struttura.
Ordinariamente non sono più grosse d’un coniglio, e hanno il corpo inviluppato in una corazza ossia formata da piastre trasversali nella direzione dei fianchi e la testa difesa da una specie di visiera scagliosa e durissima che dà a loro un aspetto curiosissimo e strano.
Al pari delle talpe, si tengono per lo più celati sotto il suolo e sono così lesti nello scavare la terra coi loro solidi artigli, che da un momento all’altro scompaiono sotto gli occhi del cacciatore. Volerli cacciare sotto il suolo sarebbe una fatica inutile perché in pochi minuti sanno scavarsi delle gallerie interminabili.
— Ritorniamo, — disse Alvaro.
Strappò da un albero un ramo, appese all’estremità i due tatù e si rimise in cammino, lietissimo di poter fornire al povero marinaio un po’ di brodo.
Quando giunse all’accampamento, vide il mozzo accanto al fuoco, occupato a sorvegliare due vasi informi che cucinavano fra i carboni.
— Le pentole! — esclamò allegramente.
— Se possono chiamarsi tali, signore, — rispose il bravo ragazzo. — Sembrano più due catini che delle pentole.
— Serviranno ugualmente, — disse il marinaio, che si riposava all’ombra d’un banano. — Ah! Signor Viana avete fatto buona caccia! Ve lo avevo detto che avevo veduto di tatù su questo isolotto.
— Ah! Sono questi i vostri tatù. Possono servire per fare un buon stufato?
— La loro carne vale quella delle tartarughe, signore. Ah!
— Che cosa avete?
— Dove avete tagliato quel ramo?
— Da un albero che si trovava presso il luogo dove ho uccisi questi animali.
— È maté.
— Maté! Che cos’è?