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228 | Capitolo Ventiquattresimo. |
Numerosi uccelli, vedendo quegli uomini a sbarcare, si erano alzati fra i canneti della riva e fra le piante, fuggendo in tutte le direzioni.
Non erano solamente acquatici. Vi erano, frammisti fra i beccaccini e le gallinelle dei bei mahitaco dalla testa turchina, degli arà tutti rossi, dei canindè somiglianti ai cacatoa australiani e degli aracari quei piccoli tucani che non sono più grossi d’uno dei nostri merli e che pure hanno il becco che ha quasi le dimensioni dell’intero corpo di quegli strani volatili.
— Questo è un vero paradiso! — esclamò Alvaro, che era entusiasmato di quell’isolotto. — Voi, mio caro Diaz, potrete completare tranquillamente la vostra guarigione.
— Se i Caheti non verranno a disturbarci, — rispose il marinaio.
— Sono l’Uomo di fuoco, e farò tremare anche quei selvaggi, come ho fatto impallidire i ferocissimi Eimuri.
— È vero: abbiamo i fucili e riusciremo a respingerli se verranno ad assalirci. Badiamo però che non ci sorprendano.
— Veglieremo, — disse Alvaro. — Ehi, Garcia se tu accendessi il fuoco e fabbricassimo le pentole?
— E la selvaggina da far cuocere, signore? — chiese il mozzo.
— Dannato paese! Si deve pensare sempre al ventre!
— Non abbiamo ancora fatto colazione, signore!
— Me ne accorgo da certi brontolii dei miei intestini. Accendi il fuoco mentre io mi proverò a fabbricare un vaso. Non sono mai stato un pentolaio, ma qualche cosa otterremo.
— Se quel maledetto giaguaro non mi avesse ridotto in questo stato, vi mostrerei io come fanno gl’indiani, — disse Diaz.
— Ne farete altre più tardi, — rispose Alvaro. — Anche in un catino si può cuocere un pezzo di selvaggina e noi non siamo persone da badare alle forme più o meno perfette. —
Il mozzo aveva già raccolta della legna secca ed aveva improvvisato un fornello con due pezzi d’arenaria trovati in mezzo agli acagiù. Affastellò le scorze dell’albero delle stoviglie e dopo non pochi tentativi vi diede fuoco.
Alvaro il quale pensava che anche avendo la pentola mancava lo stufato, aveva preso il proprio fucile per cercare di abbattere qualche arà o meglio ancora uno di quei tatù che il marinaio asseriva d’aver già veduti, quantunque non sapesse affatto che razza di animali potessero essere, non avendo mai, prima di allora, udito a parlarne.